Alexis Tsipras (foto), il leader di Syriza, ha stravinto le elezioni in Grecia con il 36,3 per cento, aggiudicandosi 149 dei 151 seggi che occorrono per avere la maggioranza assoluta nel Parlamento ellenico; gli indipendenti di Anel, formazione di destra ma anch’essa anti euro, hanno già dichiarato ufficialmente che gli garantiranno l’appoggio dei loro 13 eletti. Una vittoria annunciata, propiziata da una campagna elettorale basata su un leit motiv che ha catturato facilmente il favore popolare: basta con i sacrifici che da anni ci chiede l’Unione Europea. Le privazioni non piacciono a nessuno, quindi l’impatto emotivo di questo slogan è stato enorme: non si sa ancora in che modo il nuovo governo riuscirà a mantenere l’impegno, ma il desiderio di dare uno schiaffo alla pedanteria dei “ragionieri” Ue ha indotto i cittadini a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Lo stesso Tsipras ha già ridimensionato lo strappo, affermando che intende presentare nuove proposte a Bruxelles, un piano per i prossimi cinque anni. A prescindere dall’evolversi della vicenda greca, il risultato delle urne è un campanello d’allarme che non va sottovalutato in quanto è sintomatico di un malessere diffuso non soltanto all’ombra dell’Olimpo, ma in tutti quei Paesi che si sentono figliastri e non figli della bandiera stellata. Compreso il nostro, dove non eravamo abituati a tirare la cinghia: in questi ultimi anni l’abbiamo fatto, però non è servito a nulla, e questa frustrazione potrebbe portare anche noi a dare fiducia al primo che ci prometta la fine dei sacrifici, senza chiederci neppure se e come ce la farà. Il nodo di tutta la questione è sempre quel vecchio problema evidenziato un secolo e mezzo fa da Massimo d’Azeglio: s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani. Lo stesso discorso vale per l’Europa: sulla carta rappresenta una federazione di nazioni unite nell’intento di una crescita comune, nei fatti pare una riunione di condominio in cui i condomini ricchi fanno sempre la voce grossa, dimenticandosi di quando erano poveri.